Masini Daniele 3285906674



DANIELE MASINI: vendetta e orgoglio della solitudine
Dal catalogo della mostra Galleria Melozzo 1983
je verrai les printemps, les étés, les automnes; et quand viendra i' hiver aux neiges monotones, je fermerat partout portières et volets pour bàtir dans la nuit mes féeriques palais.
Charles Baudelaire
A Santa Sofia, sulle più basse pendici della foresta di Campigna, nel cuore della più illustre vicenda della pittura romagnola contemporanea, c'è una scuola media di fattura nuova e bellissima, dove i mobili in legno di pino della foresta si asternano al verde di piante freschissime cascanti a festoni da curatissimi vasi. Lì sono andato a vedere ieri sera, di sabato, in un' ora vuota e deserta, in un luogo almeno privilegiato se non unico, una grande parete che mi è sembrata, nell' ingannevole luce, di un denso azzurro quasi blu. Una parete alta, sovrana di un ampio spazio di passaggio e di incontro. E alto, in quella parete, un grande quadro, dominante, come le antiche tele sugli altari; un grande volto d uomo. Non un modello, non un volto esemplare, ma la deformazione, l'intenzionale stravolgimento di quello che avrebbe potuto essere un modello: un occhio reso guercio e sbilenco da uno scarto violento della linea dello sguardo, una bocca incattivita dalla asimmetria, il naso evidenziato dalla sregolatezza dell'innesto; e tutto il volto poi assediato e invaso da deturpanti macchie, da una sorta di mortifera lebbra che dà disagio se non ripugnanza, e che tuttavia non umilia e non cancella l'intenzione volitiva, la determinazione fredda e ironica che trapela dalla forma, dall' assetto, dalla struttura intera di quel volto, chiuso in basso da un breve stralcio di panni rinascimentali di qualità povera e trasandata. E' I autoritratto, consegnato al premio Carnpigna, di Daniele Masini. Non I' autoritratto, ma I, autoidealizzazione; tutta voltata al negativo, allo sgradevole, al provocatorio, ma di autoidealizzazione si tratta; una sintesi di lui stesso, una carta dell' identità profonda, il frutto consapevole di una storia e di una esperienza. Verrebbe in mente Ligabue, ma qui manca I attonita disperazione di quei suoi ritratti innocenti e angosciosi; verrebbe in mente De Chirico, ma qui manca la lussuosa signoria dei suoi rispecchiamenti. Viene in mente, invece, la smorfia amara e risentita di quella galleria di ritratti baudelairiani che ci ha lasciato soprattutto Nadar. Dove il poeta è appunto idealizzato in quanto corroso e consunto, senza che nulla perda di un' interna luce vitale. Manca, nell' autoritratto di Masini, quella stanchezza che gli anni impressero via via sul volto di Baudelaire, affrettata da un volontario fascino della fine e della morte. Integro e sano, combattivo e vincente è invece in Masini il richiamo dell'energia vitale, della tensione ad essere. Non c' è macchia, in quell' autoritratto, che possa cancellare l'impressione affermativa che emana dagli occhi. Sintesi e idealizzazione, dicevo, autoritratto di un'idea di sé stesso che Daniele ha voluto proporre sul crinale dei suoi trent' anni. Daniele ha alle spalle, ed è un errore, forse più vita che pittura, nel senso che fino ad ora ha voluto imprimere alla sua pittura gli impulsi e le ragioni dirette assunti con urgenza dalla urgenza stessa del vivere; e con I' urgenza anche le alternanze e le cadute, le dispersioni ed i vuoti. Tra i venti e i trent' anni, sicuramente Daniele Masini ha consumato a lungo I' equivoco decadente che pone nella artisticità della vita la condizione della verità e della vitalità dell' arte. Lo conobbi al principio degli anni settanta, poco più che ventenne. Aveva uno studio angusto e labirintico, pieno di disordine e di segreti. C' erano molte stanze, destinate ciascuna a molte cose. Offriva bottiglie di alcool e libri di Baudelaire, traduceva in termini esistenziali le rivolte politiche del Sessantotto. Viveva di equivoci che alimentavano le radici del suo dipingere. Non sapeva, forse, che attualizzare Baudelaire, o Rimbaud, non era eccezione, ma regola e costume. Il maledettismo gli rendeva; nella vita più che nell' arte. E ne era, tutto sommato, felice. Ma ci teneva poi ad avvertire, chi oltrepassava la soglia dello studio vero e proprio, della stanza destinata alla pittura, ad avvertire che un diverso mondo cominciava, un mondo di regole e di disciplina, il mondo della intransigenza dell'arte. Non era vero, ma ne era convinto; a prova, comunque, di una volontà ultima di farsi pittore che soppravviveva sempre all' uso facile e immediato del dirsi e del presentarsi pittore. Ma sapeva benissimo, già allora, cosa voleva dire dipingere. Aveva un segno limpido e crudo, più nel disegno che nella
pittura; un segno che sapeva, dal disegno, portare nella pittura, per un di più di violenza e di provocazione che esso gli permetteva. Quel segno lo conduceva a denudare grandi croci megalitiche sulla desolazione di paesaggi assenti, di vuoti profondi, in orizzonti glaciali, sotto la luce di lune mute e impassibili. Oppure quel segno si aggrovigliava in reticolati e roveti, in cascami di morte pendenti da ferraglie e da pietre. Una vocazione funerea dilagava poi dai disegni alle tele, tramutate in scorci di loculi mortuari da cui bende e marciume scivolavano insieme. Un' esca negativa e macabra affidata alla maestrìa tecnica di cui già allora Masini era capace, che risucchiava in una infinita putrescenza le forme della vita vivente, che ne smentiva a furia di morte e di schifo i trionfi e le glorie. Una negazione radicale quanto sterile, che ricorreva a miti scontati, romantici e decadenti, per dire in modo convenzionale il radicale dissenso che Masini sentiva intercorrere tra sé stesso e le forme della vita comune. Le forme della morte erano evidentemente una metafora troppo semplificata, almeno nei modi così radicalmente esibiti, perché potessero dar ragione delle relazioni più mediate e complesse con cui la vita si svolge e si esprime. Ed ecco il quasi totale silenzio di Masini negli anni che vanno dai suoi venticinque ai suoi trenta e più, il suo chiudersi, il suo orgoglioso negarsi, i suoi idoli polemici, il suo velleitarismo, le sue donchisciottesche battaglie, lui che non si concepisce pittore locale, con le angustie e le furbizie della cultura locale, con le istituzioni vanitose e inconcludenti. La smorfia dell' autoritratto che ho visto ieri sera. La prova della pittura.
Oggi Daniele Masini dipinge in grande, nel triplice senso che dipinge a fondo tele di grandi dimensioni; che si confronta, in tecniche e contenuti, con la grande pittura degli antichi; che I' orizzonte della sua pittura e del suo modo di essere pittore non è più quello imposto dai piccoli duelli della cultura locale. c' è forse in lui una presunzione di sicurezza e di giudizio; ma è certo oggi che per lui la pittura segna un punto di distanza e di consapevolezza, di affronto dell' attualità con gli strumenti signorili della inattualità, riabilitati al ruolo di magistero e di contestazione. Oggi Masini dipinge, con lunga e solitaria dedizione, battaglie di guerrieri reclusi e ingigantiti dalle corazze, e scompiglio di cavalli appesantiti dai ferri che li coprono, e agli uni e agli altri presta la straordinaria profondità dei contrasti della luce e dell' ombra, della balenante evidenza e dell abisso notturno. I suoi guerrieri han teste di bestie e di mostri, sono creature metamorfiche, reciproche allegorie dell' umano e del disumano. Sotto la lezione della grande pittura, dai fiamminghi al barocco, la metafora figurale della vita e della morte si èarricchita e complicata di allusioni nuove: quella, per esempio, di un destino di travestimento e di lotta imposto dalle apparenze e dalle parti; quell' altra, per esempio, della bestiale violenza che assume la contesa umana; e quell' altra ancora di una grandezza stravolta e tragica che ha in sé la contesa, sbocco di vitalità e di energia, nobile e degradata nello stesso tempo. Perché il dramma più forte che intende dire la pittura di Daniele Masini non à quello dello scontro e dell'urto, ma quello della sua falsificazione e del suo equivoco. Quello di gente divisa dalle forme, simile nella sostanza. Gli occhi che si protendono dagli spiragli delle armature, occhi di uomini e di animali, hanno tutti la stessa comune angoscia delle creature prigioniere che la prigione inimica e raggela. Occhi che dicono senza poter parlare, occhi di lontanissimi fratelli, occhi della solitudine. Lo stesso occhio che ritorna ossessivo in tutte le altre figure della pittura attuale di Masini, prostrate dalla rovina, decomposte dal male, rose nei panni e nella carne dalla miseria del vivere; e pur tuttavia determinate e fredde, ostinate e implacabili in quegli occhi che insinuano in chi li guarda il disagio della colpa. Occhi simili a quelli dell' autoritratto che ho visto ieri sera, tutti gli occhi di Daniele Masini. Tutti con quel freddo orgoglio della solitudine che si vendica degli altri scegliendo sé stessa. Daniele ha oggi uno studio grande e ordinato, molti studenti e poche amicizie, tira d' arco e ama i dettagli raffinati; come i preziosi dettagli di armature e di corpi su cui indugia con sapienza la sua pittura: la montaliana aurea cornice alla agonia di ogni essere, I' oro baudelairiano estratto dal fango della città.
Andrea Brigliadori
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